Criminologia e Modelli sull’Hacking: Tra Cyberpsicologia e Devianza

da redicon
Criminologia hacking

L’hacking, in ambito di cyberpsicologia e criminologia, è definito come un processo di violazione dei sistemi informatici. Negli anni, studiosi di varie parti del mondo hanno cercato di delineare profili di hacker, con l’intento di rendere prevedibile e prevenibile questa forma di criminalità. L’approccio alla comprensione del fenomeno non è stato facile, poiché le motivazioni e le modalità con cui gli hacker agiscono sono in continua evoluzione. Gli studi sulla psicologia dell’hacking si concentrano su fattori come la personalità, il contesto sociale e le influenze culturali che contribuiscono a creare un profilo del potenziale hacker.

Una Breve Storia dell’Hacking

Il progresso tecnologico rende difficile fornire una definizione unica e definitiva degli hacker e delle loro motivazioni. Tuttavia, è possibile esaminare alcune delle variabili sottostanti a questo fenomeno per aumentare la consapevolezza degli utenti e prevenire attività illecite. L’evoluzione dell’hacking ha portato a una costante trasformazione del modo in cui viene percepito, spostandosi dal concetto di mera curiosità tecnica a una vera e propria attività criminale con implicazioni globali.

L’hacking ha origine negli anni ’80, tra i brillanti studenti del MIT. Inizialmente, rappresentava un atto rivoluzionario, simbolo del potere dell’intelletto capace di superare le barriere burocratiche e politiche. Questo spirito, orientato all’esplorazione del potenziale tecnologico e alla sfida dei limiti, continua a esistere, complice la natura del cyberspazio, che supera confini geografici, politici e identitari (Ramsdell, 2011). Gli hacker, infatti, vengono spesso classificati moralmente in tre categorie: i “cappelli neri”, che agiscono per fini criminali; i “cappelli grigi”, che operano in una zona etica ambigua; e i “cappelli bianchi”, che violano i sistemi sotto commissione per scopi legittimi, come indagini e sicurezza.

Tra queste categorie, emerge anche il fenomeno dell’hacktivismo, simbolizzato dalla maschera di Guy Fawkes del collettivo Anonymous. Gli hacktivisti utilizzano metodi illegali per perseguire obiettivi che considerano giusti, rispecchiando il famoso aforisma di Machiavelli: “Il fine giustifica i mezzi”. L’hacktivismo rappresenta una forma di protesta digitale, con l’intento di promuovere cause politiche o sociali. Questo tipo di hacking si distingue perché non è motivato solo da interessi personali, ma mira a sollevare questioni etiche e a combattere le ingiustizie percepite nel mondo.

Chi Sono gli Hacker? Un Profilo Psicologico

Ma chi sono, in termini descrittivi, gli hacker? Secondo diversi studi (Jeong & McSwiggen, 2014; Jafarkarimi, 2015; Donner, 2016), gli hacker sono spesso giovani, bianchi e di sesso maschile. Il contesto familiare ha un ruolo cruciale: un ambiente coeso riduce la probabilità di attività illecite online, mentre una supervisione eccessiva può spingere gli adolescenti a trasgredire (Sasson & Mesch, 2014). Questo aspetto è particolarmente importante perché evidenzia come le dinamiche familiari possano influenzare il comportamento online dei giovani, favorendo o contrastando l’inclinazione a intraprendere attività illegali.

Riguardo alla personalità degli hacker, Fasanmi et al. (2011) hanno osservato che giovani maschi con un forte bisogno di realizzazione sono più propensi a commettere frodi su Internet. La necessità di sentirsi competenti e di dimostrare le proprie abilità tecniche può spingere molti giovani verso l’hacking, specialmente in un contesto sociale che valorizza la competizione e l’individualismo. Inoltre, diversi studi hanno trovato una correlazione tra il genere maschile e la propensione all’hacking (Seigfried-Spellar, 2014), suggerendo un legame con l’estrema sistematizzazione, tipica del cervello maschile secondo la teoria di Simon Baron Cohen (2011). Questo suggerisce che le differenze di genere possano giocare un ruolo significativo nella predisposizione all’hacking, anche se ulteriori ricerche sono necessarie per comprendere appieno queste dinamiche.

Julian Assange, fondatore di WikiLeaks, ha descritto se stesso come “un po’ autistico” nel contesto degli hacker, riflettendo il mito pop dell’hacker come “geek”. Sebbene questo legame tra tratti autistici e hacking possa sembrare plausibile, interpretare l’hacking come fenomeno clinico potrebbe avere implicazioni legali, portando a minimizzare la responsabilità degli atti criminali. Questo tipo di rappresentazione rischia di creare una percezione distorta, associando in modo errato tratti di neurodivergenza con comportamenti devianti, e potrebbe portare a conclusioni sbagliate riguardo alle motivazioni degli hacker.

Hacking e Condotta Deviata

Come i crimini nel mondo fisico, anche quelli del cyberspazio sono frutto di condotte devianti e di una ridotta empatia. L’anonimato e la mancanza di autorità diretta nel cyberspazio facilitano queste condotte (Suler, 2004). L’assenza di conseguenze immediate e la possibilità di agire senza essere identificati creano un terreno fertile per comportamenti antisociali. Sebbene non ci siano ancora evidenze conclusive sul legame tra hacking e psicopatia clinica, Fanti et al. (2013) hanno riscontrato una correlazione tra comportamenti di cyber-aggressione e alti livelli di narcisismo e psicopatia subclinica. Questo suggerisce che, sebbene non tutti gli hacker siano psicopatici, alcuni tratti di personalità associati a questi disturbi possono contribuire alla propensione a violare le leggi.

Gli studi qualitativi di Zhengchuan Xu et al. (2013) mostrano come il percorso degli hacker spesso inizi con la curiosità verso il computer, per poi evolvere in una sfida crescente fino alla vera e propria attività criminale. La curiosità e la passione per la tecnologia sono spesso alla base dell’interesse per l’hacking, ma quando questo interesse si combina con l’opportunità di guadagno facile o con la mancanza di una guida morale, può trasformarsi in attività illegale. Le comunità hacker reclutano nuovi membri sfruttando il senso di sfida e l’adrenalina derivante dalla violazione di sistemi, creando una sorta di dipendenza, simile a quella per i videogiochi (Mustafa Solmaz et al., 2011). L’appartenenza a queste comunità offre un senso di identità e appartenenza, che può essere molto attraente per giovani in cerca di un posto nella società.

Il reclutamento nelle comunità hacker spesso avviene attraverso forum e piattaforme online, dove i neofiti vengono incoraggiati a dimostrare le proprie abilità violando sistemi di sicurezza sempre più complessi. Questa dinamica di sfida continua può portare a una vera e propria dipendenza psicologica, in cui l’individuo sente il bisogno di dimostrare costantemente il proprio valore e di superare nuove barriere. Questa sorta di “gamification” dell’hacking rende difficile per molti hacker abbandonare questa attività, anche quando iniziano a rendersi conto delle possibili conseguenze legali e morali delle loro azioni.

Modelli Teorici e Antecedenti dell’Hacking

La ricerca criminologica ha utilizzato diversi modelli per spiegare l’hacking, tra cui la General Theory of Crime (Gottfredson & Hirschi, 1990), la Routine Activity Theory (Felson & Cohen, 1979) e la Social Learning Theory (Bandura, 1977). Questi modelli sottolineano fattori come il basso autocontrollo, la percezione di assenza di autorità e l’influenza dei pari devianti come elementi chiave nel determinare la condotta criminale online. La Routine Activity Theory, ad esempio, evidenzia come la disponibilità di obiettivi vulnerabili e l’assenza di “guardiani” adeguati siano condizioni favorevoli per l’emergere del crimine, e questo vale anche nel contesto virtuale.

Un altro aspetto interessante è il legame tra il coinvolgimento personale in atti di cybercriminalità e il rischio di diventare hacker, come suggerito da studi sul cyberbullismo (Gámez-Guadix et al., 2013). Gli individui che subiscono o sono esposti ad atti di cyberbullismo possono sviluppare un comportamento di rivalsa, che li porta a diventare a loro volta hacker o cyber-aggressori. Questo ciclo di vittimizzazione e aggressione è un elemento cruciale da considerare nella prevenzione della criminalità informatica.

In termini di fattori protettivi, è stata evidenziata l’importanza dell’educazione religiosa nel prevenire comportamenti devianti online (Casidy et al., 2016), anche se ci sono ancora molte aree di indagine da esplorare, come i pattern di attaccamento e la loro influenza sui comportamenti dei nativi digitali. L’educazione religiosa può fornire una struttura morale che riduce la probabilità di devianza, ma non è l’unico fattore. Anche un forte supporto sociale e relazioni familiari stabili possono fungere da fattori protettivi contro l’inclinazione all’hacking. Inoltre, la promozione di un uso consapevole e responsabile della tecnologia fin dall’infanzia potrebbe contribuire a prevenire la formazione di comportamenti devianti.

Un ulteriore ambito di ricerca riguarda l’efficacia dei programmi di prevenzione nelle scuole, che mirano a sensibilizzare i giovani sui rischi e le conseguenze dell’hacking. Questi programmi potrebbero aiutare a sviluppare un maggiore senso di responsabilità e a dissuadere i giovani dal vedere l’hacking come un’attività priva di conseguenze. Educare i giovani sui limiti legali e morali dell’uso della tecnologia, insieme a fornire modelli positivi di comportamento digitale, potrebbe essere la chiave per ridurre l’incidenza del crimine informatico tra le nuove generazioni.

L’hacking è quindi un fenomeno complesso e multifattoriale, che richiede un approccio integrato per essere compreso e affrontato. Solo attraverso una combinazione di educazione, supporto familiare, politiche sociali e interventi mirati sarà possibile ridurre la criminalità informatica e creare un cyberspazio più sicuro per tutti.

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